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Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson
GENERE: horror

Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l'Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.

Così si presenta quello che, insieme a "La lotteria", è considerato il romanzo più significativo si Shirley Jackson.
Scritto nel 1962 poco prima della morte dell’autrice avvenuta prematuramente all'età di 49 anni, Abbiamo sempre vissuto nel castello è ancora oggi un punto di riferimento importante nel genere horror, basti pensare alla dedica che un certo Stephen King - non proprio l’ultimo arrivato - ha scritto in onore della collega in apertura del romanzo L'incendiaria (1980):
A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce
Ed è incredibile come sia effettivamente questo che si prova durante la lettura del romanzo. Era una sensazione che avevo già provato leggendo "L’incubo di Hill House" sempre della Jackson, ed è uno degli aspetti straordinari di questa autrice. Scordatevi quindi effetti o descrizioni da film splatter, colpi di scena e scariche di adrenalina. Lo stile è pulito, preciso e inequivocabilmente angosciante, sarete sospesi in uno stato di costante tensione ma non accadrà mai nulla di particolarmente eclatante. Riuscire in questo è già ragione sufficiente per leggere il libro.

Il talento di Shirley Jackson è innegabile e traspare in tutto il racconto. Forse il fatto che la stessa autrice fosse affetta da agorafobia e soggetta a continue crisi nervose, l’ha in qualche modo “aiutata” a trasmettere al lettore uno stato di angoscia e oppressione costante tramite l’utilizzo di un linguaggio sempre pacato, semplice ma molto efficace. Questo è un libro che sconvolge.

La storia si sviluppa in un tempo imprecisato ed in un luogo indefinito, (a significare che potrebbe accadere dovunque ed in qualunque momento?), e viene narrata in prima persona dalla diciottenne Merricat Blackwood, la più piccola delle due sorelle che vivono insieme nella grande casa di famiglia insieme al vecchio e alquanto bizzarro zio Julian costretto sulla sedia a rotelle e sempre impegnato a redigere un fantomatico diario.

L'autrice crea tre personaggi assolutamente unici e strambi ognuno a modo proprio ma è su Merricat che focalizza la sua attenzione dipingendo una figura inquietante, piena di manie e ossessioni, al tempo stesso reale e magica nel suo modo di pensare la propria vita con la sorella in aperta opposizione con il resto del mondo. In molti punti del libro appare evidente il desiderio di una vita tranquilla e pacifica che potrebbe esistere "solo se andassero sulla Luna", a dimostrare di come sia rimasta indietro, reclusa in una grande casa al di fuori da tutto e privata di una vita normale. Non è certo un caso che Merricat sia citata nell'elenco dei migliori 100 personaggi del 1900 secondo Book Magazine nel 2002!
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo mi avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!
In tutto il racconto, la cura dei dettagli è spinta all'estremo senza però appesantire il fluire della vicenda. La descrizione della casa in cui vive Merricat col resto della sua famiglia è meticolosa e molto claustrofobica perfettamente in linea con la caratterizzazione psicologica dei personaggi.

Leggere questo racconto è come entrare in una nuvola grigia dove i contorni si sfocano, dove si ha una percezione distorta della realtà, dove non si capisce dove sia il male e dove il bene. Molto di quello che accade segue logiche di semplice inevitabilità e la Jackson ne amplifica l’effetto immergendo tutta la storia in una sorta di surrealismo gotico in cui il lettore rimane inerme.


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